Da "BIRTH OF THE COOL" - Miles Davis -

Nel jazz, come in qualsiasi altro genere musicale, alcune cose appartengono al loro tempo, altre lo precedono, mentre altre ancora non conoscono tempo. La musica creata dal Miles Davis Nonet, di cui l’intera produzione è contenuta in questo album, è l’insieme di tutte queste cose più altre ancora. Essa non fu solo il risultato di un periodo o di un momento specifico, ma dimostrò di aver anticipato i tempi, avendo influenzato le numerose evoluzioni proprie del jazz che la seguirono e che la ebbero sempre come punto di riferimento. Inoltre, durante l’ascolto risulterà immediatamente evidente sia la sua eternità, che la sua assoluta perfezione.

Molte cose sono nate da questa fonte originaria, come gli ulteriori sviluppi nella musica di Davis e da coloro che ne hanno contribuito, in particolare Gerry Mulligan, Gil Evans e John Lewis, le molte piccole formazioni jazz degli anni Cinquanta e Sessanta che hanno attinto qualcosa dai suoi più disparati aspetti, e dalle sue concezioni di base, l’intero movimento jazz della West Coast, e così via. Tutto ciò è ancora più sorprendente se si considera quante poche registrazioni fece il Nonet, e cosa ancor più importante, le poche esibizioni in concerti dal vivo. (Il più recente, generalmente rende l’idea dei progressi realizzati e trasmessi al pubblico presente in sala).

E mentre il pubblico che ascoltava il jazz verso la fine degli anni Quaranta poteva rimanere indifferente alla musica del Nonet, magari fino al punto di doverne sopportare i concerti nella tournée di New York, i musicisti jazz di allora non manifestarono una così forte opposizione, ma piuttosto ne riconobbero in breve tempo la bellezza e l’audacia creativa, il carattere assai rivoluzionario nel suo approccio al jazz, inteso nella sua totalità, e l’energia potenziale implicita in essa, che avrebbe sicuramente generato degli sviluppi futuri. Effettivamente i musicisti furono i primi a rispondere agli stimoli prodotti dalle registrazioni del Nonet, e lo fecero quasi subito. Nei due anni che seguirono l’ultima session di registrazione, Gerry Mulligan aveva fatto propri molti dei precetti, avvalendosene poi nel suo celebre quartetto senza pianoforte con Chet Baker, riscuotendo un enorme successo. Shorty Rogers, trombettista e arrangiatore, aveva imparato molto; prima negli arrangiamenti che stava facendo per la Stan Kenton Orchestra e, dal 1951 in poi, ancor più per il suo piccolo gruppo, The Giants, nel quale si nota con facilità l’influenza che generò nella corrente della West Coast. John Lewis, un altro membro del Nonet, aveva creato e seguito la direzione musicale del Modern Jazz Quartet, basandosi molto sull’esperienza che aveva maturato con la band di Davis.

In tutto il jazz, i più lungimiranti musicisti studiarono le registrazioni del Nonet con estrema curiosità cercando poi di trasporre quanto più avevano acquisito nella loro musica. Né la sua influenza terminò con questi gruppi o con i movimenti degli anni Cinquanta, ma nei quattro decenni che erano trascorsi dalle prime registrazioni del Nonet, il mondo del jazz si era tinto di numerosi nuovi piccoli gruppi, grazie alle successive collaborazioni di Davis e di Evans che crebbero con il Nonet, e con il jazz orchestrale. Un giudizio posteriore ha dimostrato, e lo ha fatto molto chiaramente, che queste sono, tra l’infinita produzione di modern jazz, implicazioni che influenzano in misura più o meno larga, anche la musica contemporanea.

Sostenere che il Davis Nonet sia stato il prodotto di un evento puramente casuale, equivalrebbe ad uno stravolgimento eccessivo della realtà, ma si può tranquillamente affermare che in tutto ciò, qualcosa di accidentale, ci sia stato. E come per molti eventi, considerati rivoluzionari dopo la loro comparsa, la musica del Nonet subì un’evoluzione graduale attraverso un costante processo di sviluppo e di sperimentazione nel quale il suo scopo veniva definito e rifinito per infine prendere forma.

Le sue origini possono essere rintracciate nella piccola formazione di musicisti che a partire dalla metà del 1947 iniziò a trovarsi nell’appartamento di Gil Evans, esperto arrangiatore, che godeva di enorme ammirazione per le numerose brillanti e ardite orchestrazioni di capolavori bop, come Anthropology, Thrivin’ On A Riff e altre, fatte per la Claude Thornhill Orchestra. Evans, saggio e completo consigliere spirituale di quasi una generazione più vecchia di quelle che ascoltavano la sua musica, servì da collegamento tra la gente e le teorie musicali più avanzate, dando al jazz vitalità ed ebollizione nel momento in cui Davis faceva la sua comparsa e si metteva a capo del nuovo movimento.

Quando Davis, membro del Charlie Parker Quintet, era direttamente coinvolto nello sviluppo di alcune concezioni, Evans e il suo gruppo ponevano la loro attenzione sulle loro periodiche session. Se l’esperienza fu d’inestimabile valore per la crescita musicale di Davis, il continuo esibirsi in spettacoli notturni al fianco di un solista illustre e dall’inventiva prodigiosa come Parker, fu alla fine qualcosa di scoraggiante, e forse anche di frustrante. Inoltre Davis si stava stancando degli arrangiamenti relativamente semplici, e di suonare negli standard tipici di tante piccole formazioni di bop come quella di Parker che lo attaccava come se fosse un musicista limitato quando si confrontava con le potenzialità suggerite dalla musica stessa. Egli era stato attratto dalla poco ortodossa descrizione che Evans aveva fatto della Thornhill band, e cioè come una possibile alternativa ai soliti convenzionali arrangiamenti.

I due si incontrarono quando Evans gli chiese di permettergli di arrangiare per la Thornhill la recente Donna Lee. Davis, in cambio gli chiese di poter studiare i suoi spartiti; fu così che entrò nella cerchia degli arrangiatori. Tutto ciò accadde verso la fine del 1947, quando nel novembre di quell’anno, la Thornhill band registrò Donna Lee. Non passò molto tempo che, come Gerry Mulligan ricordò: "Davis prese l’iniziativa e applicò la teoria. Chiese di fare delle prove, affittò le sale, chiamò i musicisti, e solitamente esigeva maggiore applicazione diventando severo.". Sotto la catalizzante influenza di Davis, le discussioni infomali e le session fatte per l’occasione, si trasformarono presto in un qualcosa di diverso, e le idee che fino ad allora erano poco più di vaghe possibilità teoriche, furono presto revisionate per prendere forma nella verifica di prove regolari.

Nella sua musica, il Nonet cercò di realizzare una serie di obiettivi tra loro concatenati. Primo fra tutti fu lo sviluppo di un approccio all’insieme della composizione che conservasse la freschezza e l’immediatezza dell’improvvisazione, nella quale si fondessero elementi del bop e specialmente della musica di Parker, con un certo numero di consuetudini come, una tonalità leggera, e priva di vibrati, ma anche un più penetrante approccio nei confronti del ritmo, ampiamente evitato dai musicisti bop, come pure il tentativo di raggiungere la tavolozza, enormemente colorata e strutturata, di una grande orchestra, pur disponendo di un relativamente esiguo numero di elementi. Uno scopo conseguente, fu l’elaborazione di un allineamento bilanciato e più amalgamato tra la partitura e l’improvvisazione rispetto a quanto non facesse il bop, in quanto l’arrangiamento guidava e si imperniava sul solista che, quando suonava, ci si aspettava tornasse all’improvvisazione e che la scomponesse in relazione alle battute della partitura che seguivano nel brano. Vennero fatte molte prove in quell’anno, durante il quale sperimentarono diverse combinazioni strumentali tra il pool di musicisti che avevano a disposizione, e tra il nucleo del gruppo di Evans, cui talvolta si univano amici e colleghi. Un certo numero di musicisti venne prelevato dalla Thornhill orchestra, quando questa non era in tournée (il sassofonista contralto Lee Konitz, il clarinettista Danny Polo, Sandy Siegelstein che suonava il corno francese, il bassista Joe Shulman, Billy Barber alla tuba, il batterista Billy Exiner, e anche l’arrangiatore George Russel), mentre altri musicisti giunsero da parecchi altri gruppi di bop, allora attivi in città, come il trombonista J.J. Johnson, i pianisti Lewis e Al Haig, i bassisti Nelson Boyd e Al McKibbon, e i batteristi Max Roach e Kenny Clarke. Il risultato di questi esperimenti portò alla conclusione che la formazione di sei corni e di tre elementi della sezione ritmica (tromba, trombone, corno francese, tuba, sassofoni tenore e contralto, piano, basso e batteria), avrebbe garantito la più alta potenzialità nell’esprimere la gamma delle tonalità di colore desiderate. E fu proprio per questa formazione che vennero in breve tempo concepiti gli arrangiamenti.

Nel settembre del 1948 Monte Kay fornì al gruppo il suo primo ingaggio, che li avrebbe visti alternarsi per due settimane con la Count Basie Orchestra al "The Royal Roost". Gli elementi della band che dovevano esibirsi, erano: Davis; Ted Kelly o Mike Zwerin al trombone; Junior Collins al corno francese; Barber; Konitz; Mulligan; Lewis; McKibbon; Roach e il cantante Kenny Hagood. Le reazioni furono molteplici. Mentre parecchi critici e musicisti, compreso Basie, reagirono con forte entusiasmo, i clienti abituali del club rimasero estremamente indifferenti alle sperimentazioni del Nonet. Il gruppo non si esibì in pubblico sino all’anno successivo, quando ebbe un breve ingaggio al "The Clique Club".

Fortunatamente per noi, Davis si era dato da fare per firmare un contratto con la Capitol Records, che prevedeva l’incisione di dodici brani. Questo, fu di per sè, una specie di piccolo miracolo, poiché a quel tempo, i dirigenti della Capitol non erano molto entusiasti della musica del Nonet. I tre produttori che erano a capo del personale della casa discografica, Lee Gillette, Voyle Gilmore e Dave Dexter (un noto appassionato di jazz), non solo sbagliarono nel non riconoscerne la sua portata innovativa, ma ne rimasero del tutto indifferenti, prediligendo, e ciò non sorprende, le big bands, lo Swing, i cantanti di popular jazz abili nella modulazione della voce come Frank Sinatra, Peggy Lee e Nat Cole. Nessuno era realmente coinvolto o interessato all’evoluzione del jazz moderno, come ad esempio il bop, le sue diramazioni, o i suoi più recenti sviluppi, per lo meno al punto di inciderne dei dischi.

Ciò che sorprende è che il Nonet non incise nulla. L’onore toccò a Walter Rivers, un parente del compositore, ed al co-fondatore della Capitol Records, Johnny Mercer, che venne per un breve periodo, assunto dalla casa discografica tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta. Fu River che, aperti gli uffici della Capitol a New York, arrangiò e diresse le incisioni del Nonet, che sembrano essere state le uniche che produsse durante la sua permanenza presso la casa discografica. Ed è per ciò che gli dobbiamo molto.

Otto brani tra quelli incisi dal Nonet, parecchi anni dopo la loro uscita sotto forma di singoli, vennero raccolti in un 78 giri (H-459) come facenti parte della collana della Capitol "Classic In Jazz". Tre anni dopo, nel febbraio del 1957, con l’aggiunta di Move, Budo, e Boplicity, che non erano state inserite nella precedente versione, tutti gli undici brani strumentali del Nonet, vennero pubblicati in un 33 giri (T-762), dal titolo Birth of the Cool, che da allora in poi li rese famosi. Sembra che il titolo dell’album venne concepito da Pete Rugolo, il direttore dell’arrangiamento che allora lavorava nella direzione A & D della Capitol, dove rivestiva il ruolo di responsabile per la supervisione sulla composizione degli album.

Ed ora mi sia permesso ribadire alcuni concetti: nonostante che il titolo dell’album richiami l’attenzione, la musica del Nonet fu, ed è, tutt’altro che fredda, bensì contenuta, lucida, fermamente focalizzata, concisa. Fu proprio tutto ciò e anche qualcosa di più. Ma se s’intende il "cool" come un’espressione vuota di emozioni, o in qualche modo priva di un carattere sostanzialmente passionale, come generalmente si intende il migliore jazz, allora non mi si trova d’accordo. Come chiunque sia in confidenza con la musica del Nonet può tranquillamente confermare, essa è pregna di una forza emotiva convergente, che a maggior ragione colpisce per essere così impercettibile e apparentemente e dall’indole mite.

Tutto ciò è il risultato di quanto Davis e Evans si erano prefissi, e ciò è rappresentato non solo dalla leggerezza della struttura e della ritmica, ma anche dalla totale coesione di tutti i suoi elementi; notevole è il modo in cui le tematiche e gli elementi racchiusi, vengono presentati nell’ordine di successione, sia delle parti eseguite alla lettera che di quelle improvvisate in interessanti sfumature, concepite dagli autori per uno specifico team di musicisti le cui capacità e doti erano da loro ben conosciute. Tutto ciò riuscì loro perfettamente. Tra questi dodici brani, si può trovare la musica più interessante, ingegnosa, riccamente strutturata, sempre creativa, ma anche energica, combinata, determinata negli assoli, gran parte della quale all’altezza dei classici, che sia mai stata scritta da una piccola formazione di compositori nella storia del jazz.

Alla testa dei solisti vi era il leader della band, lo stesso Davis che, come ricorda Martin Williams commentando questo disco, "aveva una dote solistica superba e unica, in parte grazie all’ammissione dei suoi limiti tecnici ed al fatto di lavorare sugli stessi al fine di migliorare, ma anche per la capacità di saper racchiudere la ritmica del bop nella sua musica, senza formularlo esplicitamente; Lee Konitz stava prendendo le distanze dal rigore del suo maestro (Lennie Tristano); J.J. Johnson si stava dimostrando uno strumentista d’eccezione e ricco d’inventiva. In conclusione, basterebbero gli assoli a rendere questi brani dei classici".

Nonostante gli assoli siano perfetti, ciò che caratterizza la produzione del Nonet, è la forma musicale ricca di significati, frutto della commistione ragionata e disciplinata tra la musica scritta e quella improvvisata, sia precedentemente arrangiata che risultante dalla spontaneità. Ma c’è anche il bilanciamento tra queste due forze che talvolta si oppongono l’una all’altra, le scelte abili ed equilibrate, che rivelano l’omaggio alla sensibilità degli arrangiatori. Cinque di questi brani appartengono alle registrazioni fatte per la Capitol. Riguardo a quattro dei dodici pezzi, c’è da dire che il più alto riconoscimento va attribuito a Gerry Mulligan, che ha curato l’arrangiamento di Godchild, una composizione di George Wallington, le sue Venus De Milo e Rocker, e la ballata Darn That Dream, un brano speciale per il cantante Kenny Hagood. Il pianista John Lewis arrangiò Move, un pezzo scritto dal batterista Denzil Best quando suonava con il quintetto di George Shearing, Budo di Bud Powell e di Davis (già registrata da Powell con il titolo di Hallucinations), e la sua Rouge. Johnny Carisi orchestrò il suo blues Israel, come Davis fece con la sua Deception. Gil Evans arrangiò Boplicity, un pezzo composto da lui assieme a Davis (e per la cui composizione Evans aveva scelto come pseudonimo Cleo Henry, il nome della madre di Davis), e la languida Moon Dreams.

Potrebbe sorgere qualche piccolo dubbio sul fatto che il Nonet di Miles Davis, attraverso il rigoroso, lucido e abbastanza audace esempio musicale, possa aver introdotto nel jazz una ventata di emotività nuova, rinfrescante, che abbia aiutato questo genere ad orientarsi verso un nuovo corso di sviluppo. Le implicazioni derivanti dall’approccio evidente in queste incisioni, ha condotto il jazz attraverso parecchi decenni di notevole crescita e di scoperte, frutto della creatività, influenzando innumerevoli formazioni, musicisti e arrangiatori, e modificando il tessuto stesso della musica. Né tuttavia si può sostenere che dopo quarant’anni la sua influenza sia terminata o che le sue risorse potenziali relative ad ulteriori riflessioni si siano esaurite. Ogni generazione di musicisti, è stata stimolata, arricchita e nutrita dalla musica del Nonet, e le cose non potranno certamente cambiare in futuro. Questa musica, che respira l’essenza e la dedizione di tutti coloro i quali ne sono stati gli artefici ha colpito e trasformato chi l’ha ascoltata, e continuerà a farlo anche nei giorni a venire.

– Pete Welding

 

UN APPUNTO SPECIALE DI GERRY MULLIGAN

Sono stato fortunato ad essermi trovato nel posto giusto al momento giusto per entrare a far parte della band di Miles. Avrei suonato in giro per parecchi anni con varie formazioni, ma incoraggiato da Gil, decisi di rimanere a New York. Fu davvero un periodo elettrizzante dal punto di vista musicale, con tutte le band importanti, grandi e piccole, che c’erano là. E tutti sembravano gravitare attorno a Gil. Ci si influenzava reciprocamente, mentre Bird aveva un ascendente su tutti noi.

Gil viveva nella una stanza di un seminterrato sulla 55a strada, vicino alla 5a Avenue. Era proprio dietro una lavanderia cinese, e nella stanza, dove c’erano un letto, un fornello, un pianoforte, ma dove non c’era il riscaldamento, passavano tutte le condutture dell’acqua e gli scarichi del palazzo. Delle persone che frequentavano solitamente Gil, mi ricordo:

John Carisi, una testa calda quasi come me quando si trattava di discutere. Chiunque scriva un pezzo come "Israel" non può essere poi così tanto male, non trovi? John Lewis, il classicista del gruppo. George Russel, l’avanguardia (scrisse dozzine di deliziosi ed interessanti partiture per la Claude Thornhill’s band che penso siano andate perse). John Benson Brooks, sognatore di sogni impossibili il nostro idealista. Dave Lambert, il nostro esperto yankee itinerante. Billy Exiner, batterista con la Thornhill e nostro filosofo di casa con il suo atteggiamento positivo nei confronti della vita e della musica. Joe Shulman, bassista con la Thornhill; credeva che Count Basie avesse solo la sezione ritmica. Barry Galbraith, il Freddie Green della sezione ritmica della Thornhill, ma anche un delizioso musicista. Specs Goldberg, uno spirito allegro. Un fantastico musicista dotato di intuizione, che faticava a contenere la sua sfrenata immaginazione. Sylvia Goldberg, che non aveva alcun legame di parentela con Specs, era una studentessa di pianoforte ed un tornado. Blossom (fioritura) Dearie, una fioritura è una fioritura. Miles il leader della band. Fu lui a prendere l’iniziativa e a mettere in pratica quanto era stato teorizzato. Era lui che organizzava le prove, affittava le sale, chiamava i musicisti e generalmente pretendeva il massimo. Max Roach, un genio. Posso dire parecchio a proposito delle sue esecuzioni con il Nonet. L’interpretazione melodica che fece della musica che avevo scritto, fu per me una rivelazione. Era semplicemente fantastico, e secondo me anche il batterista perfetto per la band. (Nessun accenno al fatto che Miles scelse per le ultime date Art Blakey e Kenny Clarke). Lee Konitz, un genio. Lee aveva suonato con la band di Claude a Chicago, e si era rivolto a noi (compreso Bird) con tutta la sua originalità. Per quanto riguarda il resto della band, J.J. e Kai si alternarono al trombone. Non fu facile trovare chi sapesse suonare il corno francese cercando di interpretare la fraseologia del jazz, ma fra tutti coloro che stavano tentando, alle nostre prove c’erano Sandy Siegelstein (che proveniva dalla Thornhill), Junior Collins (che sapeva interpretare dei bei blues) e anche Jim Buffinghton. Bill Barber suonava la tuba; era solito trascrivere i ritornelli del sax tenore di Lester Young per poi suonarli con il suo strumento. Era proprio un grande musicista. Mi ricordo che Gil ed io volevamo che al clarinetto ci fosse Danny Polo, ma lui era sempre via con la Thornhill, e non c’era nessuno che potesse prendere il suo posto. Non molto tempo prima della sua morte, facemmo delle jam sessions in cui Danny suonò il miglior clarinetto di jazz moderno che abbia mai sentito.

Come ho già detto prima, mi considero fortunato nell’aver avuto l’opportunità di vivere quell’esperienza, e ringrazio tutte le stelle della fortuna che mi hanno dato quest’occasione. C’è una certa raffinatezza in quelle registrazioni e sono compiaciuto del fatto che tutto questo materiale sia stato raccolto. E tutto ciò senza un’apparecchiatura stereo. Per parafrasare Gertrude Stein, una progressista americana: una band è una band è una grande band.

¾ Gerry Mulligan, Maggio 1971 

 

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